Speaker come i pastori sardi: questione di dumping

Oggi, mentre ascoltavo la radio “all-news” che preferisco, ho molto apprezzato la lettera che una figlia ha scritto a suo padre, pastore sardo.pecore
Questa ragazza si trova, dopo essere emigrata al nord per studiare, a riflettere sulla storia degli inizi della sua vita. Racconta di quando, bambina, rimaneva fortemente delusa perché il papà poneva la cura delle pecore in campagna al di sopra di quasi tutti gli altri aspetti della vita. Lui non partecipava a feste o ad altre riunioni di famiglia perché le pecore assorbivano quasi tutta la sua esistenza e rimandava sempre "a dopo la campagna".
A distanza di 20 anni la ragazza riscopre il padre, e capisce quanto gli sforzi fatti, in passato, siano stati fondamentali anche per la sua formazione professionale e quanto le feste che il padre si era negato siano da considerarsi oggi come il patrimonio che lei può spendere per formarsi come professionista.
Questi sono i giorni in cui l'intera categoria dei pastori sardi sta manifestando per combattere lo strapotere della grande distribuzione nel fissare il prezzo al mercato di un litro di latte di capra. Per produrlo occorre sostenere un costo di €0,90 per litro e gli industriali, fino ad oggi, non hanno mai voluto pagarlo più di €0,30. Questa operazione di dumping sul prezzo ha obbligato i pastori al gesto estremo del buttare il latte per strada piuttosto che venderlo e ricavarci un importo che non paga neanche il costo di averlo munto.
In altre interviste, mentre cercavo di interessarmi del problema, ho scoperto che alcune imprese industriali (forse una) importano il latte da paesi come la Romania riuscendo così a ottenere economie di scala impossibili alle aziende che rappresentano i piccoli allevatori e la maggior parte della produzione. Vi evito qualunque considerazione sulla qualità del prodotto finale che le due realtà riescono a mettere sul mercato: credo che non sia necessario.

Questa premessa mi è servita solo per rendere più comprensibile la mia riflessione sul mondo delle radio che ho vissuto di persona nell’ultimo decennio.
Da circa dieci anni gli editori radio hanno iniziato un sistematico dumping salariale con l’intento di spostare i rischi di impresa sui loro lavoratori.
Prima di arrivare in Veneto avevo lavorato, anche all’estero, vedendo sempre riconosciuta la mia professionalità di autore, conduttore e regista di trasmissioni radio.
Ma qualcosa è cambiato e di certo non in meglio se non per gli industriali.
Non sto parlando di piccole realtà radio di provincia ma delle cosiddette superstation (radio la cui copertura riguarda più provincie spesso in regioni diverse).
Oggi è impensabile essere assunti da una radio regionale ma si è invece obbligati a diventare partite iva sulle quali gravano tutti quei costi che sono sempre stati coperti dai committenti: oggi le spese per il welfare, per il trasporto, per eventuali problemi di salute, per la semplice mensa o le mitologiche “tredicesime” sono tutte a carico di chi lavora.
Qualcuno dirà: “Che c’è di male in questo?”.
Rispondo con un “Nulla se mi mettono nella condizione di pagarmele, la tredicesima e la malattia” ma per ottenere quello che sembra un privilegio devo ricevere un compenso adeguato.
La stessa cosa che accade in Sardegna: hanno scaricato sui pastori di pecore i costi per far aumentare la resa dei bilanci spingendo gli allevatori a compiere il gesto estremo dello sversare il latte sull’asfalto. Per loro non conviene più lavorare.
I capitali generati dal lavoro di chi realizza il prodotto (sia questo formaggio o radio) non vengono più utilizzati per valorizzare tali maestranze ma esclusivamente per aggiustare bilanci e rendite degli investitori: nulla di male ma poi non ci si può lamentare che la qualità del “prodotto” radio, nelle emittenti regionali o superstation, sia sempre inferiore (o che il pecorino non abbia più il sapore di una volta).
Si preferisce dare spazio a improvvisati speaker prelevati da mondi che con la radio non hanno nulla a che fare e che, pur essendo buoni professionisti nel loro campo, una volta messi davanti a un microfono, mostrano tutti i limiti di chi “ci prova”, mancando però di tutte le conoscenze e le professionalità richieste per un mezzo nobile e storico come la radio.
E il prodotto va scadendo.
Ritorno al parallelo con il pecorino sardo fatto col latte rumeno: pensate davvero che quello che mangiate sia un formaggio buono come quello fatto con tutte le caratteristiche del prodotto artigianale originale? Sembra lo stesso ma, come può considerarsi un latte che raggiunge la Sardegna dopo migliaia di chilometri in autobotte anche soltanto simile a quello a chilometri zero con cui da secoli si produce un formaggio famoso nel mondo? Impossibile!
Cosi è la radio fatta col dumping salariale: simile a qualcosa di buono ma assai lontano dall’esserlo.
Aver fatto oltre 20 anni di esperienza, aver studiato linguistica, semantica e semiotica, filosofia del linguaggio, comunicazione politica e di massa, retorica e altre discipline utili a chi parla in diretta al pubblico non è sufficiente. Oggi occorre svendersi, e ti ritrovi a considerarti un lavoratore altamente  specializzato  ma retribuito come un lavoratore generico che ha dovuto specializzarsi leggendo una dispensa, e a volte neanche quella.
I lavori che hanno un forte impatto sul cliente devono essere pagati il giusto, altrimenti chi ci rimette è proprio il prodotto finale (gli industriali non ci rimettono mai, risparmiando a discapito di chi si attiene alle regole della sua professionalità).
Oggi io pago fatture per un ora di lavoro a:
    • educatore cinofilo (€40+iva),
    • commercialista (€45+iva),
    • meccanico per la moto (40€+iva)
    • idraulico per il lavandino che perde (€50+iva)
    • dentista (€80+iva)
    • controllo fumi caldaia (€60+iva)
e l’elenco potrebbe continuare per ore, ma non voglio.
Voglio solo tornare a considerarmi un professionista che merita di veder riconosciuto l’equo compenso per il suo lavoro, come stanno giustamente facendo i pastori sardi.
Ho la fortuna di avere conoscenze tecniche che mi permettono di reinventarmi e di guadagnare comunque quello che mi occorre ma non perdono quegli editori con una visione cosi corta da fare il gioco di quelli più grandi di loro.
E la radio con identità regionale va scomparendo, assorbita dai grandi gruppi dotati di possibilità economiche enormi.
E il pecorino sardo originale va scomparendo a favore di un formaggio fatto con il latte rumeno da realtà industriali distanti anni luce dalla cultura e dai disciplinari studiati dai produttori “veri” e spesso artigianali.
Il risultato è sempre il solito: chi ha più potere economico continua a incamerare “ottimizzazioni di scala” a discapito di chi consuma il loro prodotto: sia questo pecorino sardo o una radio capace di fare quello che per anni ha sempre fatto, riuscendo a rimanere uno dei media tradizionali che non paga l’assalto delle nuove tecnologie.

Concludo con una riflessione rivolta ai “vecchi” della radio, e a quegli autori e conduttori che vivono del loro “essere colonne”: aggiornatevi, informatevi e fate in modo che non passi quell’adagio che vuole “lo svecchiamento delle voci in diretta” l’unico modo di innovare.
E’ anche colpa nostra se questo accade.
Professionisti dalla lunga esperienza ma rimasti a concetti e modi di fare radio che risalgono a ben oltre un decennio fa, vengono giustamente sostituiti con figure che fanno la stessa cosa (scarsamente professionale) ma che costano di meno.
Le colpe non stanno mai da una sola parte e la continua ricerca e sviluppo delle mie competenze lo considero un dovere di chi poi si espone dicendo quello che pensa… dopo averci pensato a lungo.
La crisi economica, le agenzie pubblicitarie che chiudono, i margini che si assottigliano sono  conseguenze anche del nostro lavoro, spesso fatto di “quello che siamo stati” e non di “quello che dobbiamo conoscere per rimanere agganciati alla realtà di chi fruisce il mezzo radio”. Meditiamo? Si! Ma facciamo anche Ricerca e Sviluppo: lo dobbiamo a chi ci ascolta. Parlare alla radio è semplice, ma per nulla facile se si vogliono generare numeri che paghino il nostro essere capaci.
Buon lavoro.